Una descrizione precisa di quando lui la aggredì e la minacciò di morte prima puntandole un coltello vicino agli occhi e poi afferrandola per il collo, e una, altrettanto precisa, di quando lui la scaraventò sul letto, le si mise sopra bloccandole le braccia ma senza che “le zone erogene dei due corpi entrassero in contatto”. Una testimonianza, quella della vittima, una camerunense di 34 anni, ritenuta attendibile, credibile, genuina e corrispondente ai riscontri investigativi tanto da poter sostenere la condanna per tentato omicidio e, allo stesso modo credibile e genuina da non poter arrivare alla stessa conclusione per tentata violenza sessuale. E’ la sintesi delle motivazioni della sentenza pronunciata lo scorso luglio dal giudice delle udienze preliminari del tribunale di Prato, Leonardo Chesi, al termine del processo con rito abbreviato a carico di un nigeriano di 26 anni, finito sul banco degli imputati per aver minacciato di morte la coinquilina e – nell’ipotesi della procura – aver anche tentato di violentarla. Un’ipotesi respinta dal tribunale che ha condannato l’uomo a 4 anni e 8 mesi per il primo reato e lo ha assolto per il secondo “perché il fatto non sussiste”. La procura, che aveva chiesto una condanna complessiva a 6 anni di reclusione, ha annunciato ricorso in Appello.
Il giudice non ha ritenuto gli elementi a disposizione sufficienti per poter integrare il reato di violenza sessuale. Una tesi già condivisa dal tribunale del Riesame che, accogliendo il ricorso dell’avvocato Antonio Bertei, difensore dell’imputato, aveva annullato la misura della custodia cautelare in carcere per tale contestazione, sostenendo “l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza”. Il giudice ha puntualizzato gli elementi, sottolineando che “la condotta dell’imputato ha avuto una durata brevissima e non ha determinato alcun sfregamento o contatto diretto tra le zone erogene dei corpi dell’uomo e della donna”.
I fatti risalgono alla fine del 2020. Al culmine di una lite, l’uomo afferrò un coltello da cucina e lo puntò al viso della coinquilina urlandole “ti cavo gli occhi, ti uccido e poi me ne vado in prigione”. A scongiurare il peggio arrivò un’amica della camerunense, una nigeriana che viveva nello stesso appartamento; il suo intervento, però, non fermò l’ira del ventiseienne che tentò di strangolare la donna, stringendo con forza le mani attorno al collo come poi confermò il referto del pronto soccorso. I carabinieri di Iolo, che arrestarono il nigeriano, raccolsero le dichiarazioni della vittima: al racconto dell’aggressione con il coltello, si aggiunse quello di un episodio di qualche giorno prima quando l’uomo “l’afferrò energicamente e la scaraventò sul letto”, esternandole anche a parole il suo desiderio sessuale. Un episodio finito nel nulla perché la trentaquattrenne riuscì a sottrarsi alla forza dell’uomo e a raggiungere la porta di casa per allontanarsi. Ricostruzione dei fatti confermata nel corso delle indagini e del procedimento con la vittima che non ha mai cambiato versione né togliendo né aggiungendo elementi anche quando, in forza della costituzione di parte civile, sono entrati in gioco interessi economici.
Il ricorso della procura contro la sentenza di assoluzione non mette in discussione i fatti per come sono stati ripercorsi, bensì la valutazione, l’interpretazione rispetto al mancato riconoscimento dell’imputazione di tentata violenza sessuale. “Affinché l’azione posta in essere dal soggetto possa dirsi univocamente diretta a perseguire un fine di soddisfazione sessuale e, ancor di più, chiaramente idonea a ledere il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, vale a dire la sfera di libertà sessuale – si legge nelle pagine della sentenza – occorre che la condotta sia oggettivamente in grado di produrre un’indebita intrusione nella sfera di autodeterminazione sessuale della vittima la quale, in particolare, deve percepire inequivocabilmente come tale la condotta del reo. A fronte di plurimi elementi a disposizione, si ritiene che la condotta attuata dall’imputato non possa integrare la fattispecie del reato in questione”. Il giudice ha sottolineato che “la condotta complessivamente attuata dall’imputato ha avuto una durata brevissima”, che “la condotta non ha determinato alcun sfregamento o, tantomeno, contatto diretto tra le zone erogene dei due corpi”, che “la condotta non ha assunto un carattere particolarmente violento essendo la donna riuscita a sottrarsi al tentativo di sopraffazione in maniera abbastanza agevole”, “che la condotta non pare avere ingenerato nella donna un particolare sentimento di disagio della propria sfera sessuale”. E ancora: “Rispetto a un comportamento repentino e di brevissima durata, privo di esplicite connotazioni sessuali in termini diversi dalla mera sopraffazione fisica di un corpo sull’altro, si ritiene – scrive il giudice delle udienze preliminari – che le sole frasi proferite dall’uomo mentre attuava la condotta non siano sufficienti per poter ricostruire l’univocità degli atti posti in essere”.