C’era la guerra per il controllo del mercato della prostituzione dietro l’incendio dell’auto di un imprenditore cinese e della cassa da morto, con sopra la sua foto, lasciata lo scorso primo ottobre davanti all’hotel Wall Art, in viale della Repubblica. Sei persone sono state arrestate su richiesta della procura di Prato al termine delle indagini della Squadra mobile sul plateale gesto contro l’imprenditore, titolare di una pelletteria a Campi Bisenzio. Le ordinanze di custodia cautelare in carcere sono state firmate dal giudice delle indagini preliminari a carico di un cinese di 35 anni ritenuto a capo del gruppo, di tre suoi connazionali di 31, 33 e 36 anni, di un italiano di 36 anni e un pakistano di 48, questi due ultimi considerati esecutori materiali. Le accuse a vario titolo: tentativo di estorsione e sfruttamento della prostituzione. La polizia ha provveduto a dieci perquisizioni. Nella disponibilità dell’italiano, residente in città ma originario della Calabria, è stata trovata una pistola con matricola abrasa, mentre 32mila euro in contanti sono stati trovati nella disponibilità di uno dei cinesi. Alla base dell’incendio, in seguito al quale l’auto dell’imprenditore esplose, e della chiarissima minaccia di morte, una feroce guerra per regolare vecchi debiti e per accaparrarsi il controllo della prostituzione, “uno dei lucrosi business – come scrive la procura in un comunicato – che caratterizzano l’agire della criminalità organizzata nell’area pratese e che riveste una dimensione transnazionale”.
Due gruppi contrapposti, frutto di una scissione interna. Gli investigatori hanno ricostruito il profilo della vittima, persona già nota in quanto destinataria di una misura cautelare per sfruttamento della prostituzione. La contesa di un mercato particolarmente redditizio e il saldo di un debito avrebbero scatenato la forte rivalità che è arrivata al culmine otto mesi fa quando il Wall Art è diventato teatro del messaggio intimidatorio. Perché lì? Lo spiega la procura: “Il fatto è risultato volto a costringere l’imprenditore a far fronte a un debito ricollegabile alla pregressa attività di sfruttamento della prostituzione e a far cessare l’attività di meretricio esercitata presso l’hotel”.
Intercettazioni telefoniche e ambientali hanno aiutato la Squadra mobile a ricostruire il retroscena dell’intimidazione. A fare il resto è stata anche la reticenza della vittima, la sua omertà densa di cose che non tornavano, di dichiarazioni mai chiare: atteggiamento che ha fatto emergere sospetti sul contesto criminale di quel fatto. Era l’imprenditore, stando a quanto accertato e contestato, a capo del controllo della prostituzione fino a che una scissione ha formato un gruppo intenzionato a prendere il suo posto.
L’italiano e il pakistano finiti agli arresti sono accusati di aver materialmente agito su ordine del cinese che avrebbe fornito la base logistica – un autolavaggio in via delle Fonti – per nascondere la bara e organizzare l’incendio dell’auto del rivale.
“Si tratta – scrive ancora la procura – della determinazione di esponenti del crimine cinese a integrarsi solo con riferimento all’agire illecito, nella prospettiva di aumentare il proprio arricchimento, a differenza di quanto avviene nelle ordinarie attività quotidiane legali, spesso carente della necessaria interlocuzione con la realtà imprenditoriale del nostro Paese”.
Non c’è bisogno di interpretare: integrazione sì ma solo quando si costruisce ricchezza con affari illeciti.
Il Wall Art era già finito sulle pagine di cronaca nel 2019 per un violentissimo pestaggio a colpi di bastoni e coltelli in una delle stanze: anche quella volta l’inchiesta della procura ricostruì la rivalità tra due gruppi cinesi per il controllo della prostituzione. (nt)