PRATO - Morte Luana, il tecnico manutentore: “Non ho tolto io le protezioni all’orditoio”. La mamma della giovane: “Non ci credo”

Nadia Tarantino
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“Non ho manomesso l’orditoio di quella maledetta tragedia, mi deve credere. Mi deve credere perché anche mio figlio fa quello stesso mestiere e mai avrei potuto mettere una vita come la sua a rischio. Mai”. Mario Cusimano, il meccanico accusato di aver eliminato le protezioni del macchinario che il 3 maggio 2021, insieme al filato si portò via anche Luana D’Orazio, mamma di 22 anni e operaia della OrdituraA a Oste, si è rivolto direttamente a Emma Marrazzo. Parole piene di emozione quelle pronunciate guardando negli occhi la donna che però è rimasta fredda, impassibile: “Non ci credo – la sua reazione – tante volte mia figlia mi ha detto che l’orditoio al quale lavorava era mezzo tronco, e mi diceva che il titolare provava a metterci le mani e poi chiamava il meccanico a intervenire”.

Al tribunale di Prato, nel processo per la morte di Luana D’Orazio, oggi, giovedì 26 giugno, è stato il giorno dell’esame del tecnico manutentore finito sul banco degli imputati con le accuse di omicidio colposo e rimozione dolosa delle cautele antinfortunistiche, stessi reati per i quali i titolari dell’orditura, i coniugi Luana Coppini e Daniele Faggi, hanno già patteggiato rispettivamente 2 anni e un anno e 6 mesi (pena sospesa). Luana morì per l’assenza della saracinesca davanti al subbio che a forte velocità lavorava il filato: il macchinario l’agganciò e la inghiottì.  

L’uomo, difeso dall’avvocato Melissa Stefanacci, ha raccontato in aula i suoi quaranta anni di lavoro e il suo rapporto con la OrdituraA e lo ha fatto davanti ai genitori di Luana D’Orazio che non hanno perso una sola udienza.  “Mi chiamavano quando c’era da fare una riparazione e io andavo – le sue parole – io mi occupavo solo della parte meccanica perché per quella elettrica non ero in grado, e quando non potevo io perché magari impegnato altrove, chiamavano altra gente”. Ma Faggi non ha mai fatto altri nomi oltre al suo: perché, ha chiesto l’avvocato Stefanacci. “Gli altri sono suoi amici e poi non c’erano fatture a testimoniare gli interventi – la risposta – che ne so? Lavorano gratis”?

Cusimano ha sottolineato a più riprese che lui si occupava soltanto delle riparazioni meccaniche ma su questo punto hanno insistito nell’ordine il pubblico ministero, le parti civili e il giudice richiamando i messaggi inviati da Faggi il giorno della tragedia e in quelli successivi. “Mario vieni subito, è successo un guaio”; “Bisogna ripristinare tutte le sicurezze sui due macchinari”: messaggi rispetto ai quali è stato chiesto conto al tecnico che ha ribadito di non essere responsabile della disattivazione delle protezioni, di non aver costruito il ponticello al quadro elettrico per consentire all’orditoio di funzionare anche a saracinesca alzata. Il giudice ha chiesto il perché di quei messaggi. Risposta: “Per mettere in sicurezza l’orditoio al quale lavorava Luana e quello gemello non bastava l’elettricista, serviva anche il meccanico”.

E’ stato un esame sofferto. Tre ore di domande. Tre ore durante le quali il meccanico industriale, unico in Toscana a saper installare e manutenere orditoi della Karl Mayer, come quelli in uso nella fabbrica di Oste, è stato incalzato senza sosta mostrando, va detto, qualche difficoltà dovuta anche all’estremo tecnicismo della questione e all’interferenza tra intervento meccanico e intervento elettrico. Una questione su cui le osservazioni sono state tante, soprattutto per il materiale sequestrato sul furgoncino di lavoro, appunti e file trovati nel computer: elementi riconducibili a competenze di elettricista e rispetto ai quali la difesa è stata fermissima nel respingere qualsiasi ipotesi di un coinvolgimento diretto del meccanico nella manomissione all’orditoio che agganciò e inghiottì Luana e a quello gemello.

Il giudice, rifacendosi alla testimonianza di una collega di Luana che in aula, in una delle ultime udienze, ha denunciato senza mezze misure la mancanza assoluta di sicurezza per i lavoratori e di averne parlato più volte proprio con Cusimano, ha chiesto lumi: “Io l’ho detto a Faggi, forse anche alla presenza della moglie, e lui mi ha risposto che era così e così doveva restare. Che potevo fare io? Mica la fabbrica era mia, mica i macchinari erano miei”.

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